Se cambiare il mondo è impossibile, difendiamo le nostre bizzarrie
Pubblicata anche su Felix
Originariamente pubblicato nel: 2013
N.B.: Da oggi parte il nuovo ciclo d’interviste del Progetto Read a Reader, in collaborazione con Felix Cultura. Segui le interviste e i commenti anche su www.festivalibrocampania.it.
Scheda del Lettore
Luisa Emilia Nusco lavora in ambito giuridico come avvocato specializzato in diritto del lavoro, previdenza sociale e tutela del consumatore. Già dottore di ricerca in Diritto dei rapporti economici e di lavoro, nel tempo libero ama viaggiare, leggere, scrivere poesie, disegnare, preparare manicaretti per suo marito e praticare nuoto. Il suo film preferito è Tre colori – Film rosso di Krzysztof Kieslowski, ma il libro del suo cuore è Il maestro e Margherita (di Michail Bulgakov).
Lettrice a tutto tondo, Luisa ha scelto d’inaugurare la nuova gallery di Read a Reader commentando Diego De Silva, uno degli autori più famosi del territorio partenopeo e non solo.
Comincia la nuova avventura di “Read a Reader” in compagnia della Felix.
E allora, salpiamo nuovamente alla scoperta dei libri con:
Non avevo capito niente – Diego De Silva
Vincenzo Malinconico: un nome napoletano molto diffuso, e un cognome parlante. A cosa ti fanno pensare? Il protagonista del romanzo rappresenta la metafora della città in cui vive?
Il nome scelto per il protagonista del romanzo è senz’altro fortemente evocativo. L’autore sembra, sin da subito, volersi appellare a tutta l’essenza del contesto sociale in cui colloca la vicenda, così da risvegliare nel lettore un miscuglio di immagini, sensazioni, sapori, odori che lo accompagnino per tutto il libro – condizionandone la disposizione d’animo – e gli forniscano, nel contempo, l’angolazione da cui osservare le cose.
Affacciarsi nella vita di Vincenzo Malinconico significa certamente, per come è strutturato il romanzo, scrutare a fondo nella città di Napoli, tanto la realtà di questo territorio è capace di penetrare nell’animo di chi ci vive influenzandone molti momenti dell’esistenza. In tal senso, l’autore cerca – attraverso il protagonista – di dare voce e di far emergere, attraverso la malinconia di Vincenzo, taluni nodi, contraddizioni, difficoltà proprie della città partenopea: e vi riesce in maniera anche assai pregevole, ma si tratta pur sempre solo di alcuni aspetti. Credo, tra l’altro, che l’autore non intenda circoscrivere le vicende di Vincenzo Malinconico alla città in cui vive; penso, invece, che voglia renderlo una sorta di “eroe” moderno, con le sue debolezze e fragilità, in cui il lettore possa identificarsi a prescindere dalla collocazione geografica.
Perché Vincenzo è così eccentrico? Secondo te, lo è sempre stato? E le sue stranezze possono essere definite un pregio?
L’eccentricità di Vincenzo è certamente la misura della sua diversità. Diversità da quella che lui (e la società in generale) considera normale. Il protagonista avverte nel profondo tale diversità, tanto da lasciarsi scappare, ad un certo punto, l’amara considerazione che in fondo, l’obiettivo di chiunque (lui compreso) è semplicemente quello di sentirsi “adeguati”. In tal senso, la sua eccentricità è anche la misura del suo disagio; e quanto più Vincenzo si accorge di essere lontano dal suo modello di normalità, tanto più le sue stranezze si accentuano, quasi fossero una forma di protezione, una via di fuga dalla realtà. Penso, tuttavia, che la sua eccentricità sia sempre stata lì – che sia parte della sua natura.
Non credo affatto, però, che le stranezze manifestate siano un difetto. L’eccentricità, infatti, esprime la sua fragilità di uomo e lo smarrimento di fronte alla vita (che è, al contempo, espressione della sua onestà e della genuinità del suo sentire).
Tale aspetto diviene sempre più chiaro nel fluire del romanzo, concepito come un vero e proprio percorso di autoconsapevolezza, attraverso il quale il protagonista (insieme ai lettori) acquista gradualmente coscienza del suo valore e, contemporaneamente, del fatto che il modello di normalità sinora idealizzato è del tutto falsato. All’inizio, Vincenzo si limitava a subire passivamente gli avvenimenti dalla sua posizione di perdente, di “vinto dalla vita”. Una volta acquisita maggiore sicurezza in se stesso, queste realtà un tempo temute e idealizzate gli si disvelano per quello che sono, in tutta lo loro miseria umana e morale.
A Napoli non manca mai l’amore: Alessandra Persiano, la donna più affascinante del Tribunale, s’innamora del protagonista e lo aiuta. Quale valore hanno i sentimenti nella vita di questi personaggi?
L’amore della più bella è, da sempre, la ricompensa dell’eroe nei romanzi classici; e anche per Vincenzo, il percorso di autoconsapevolezza passa attraverso la conquista dell’amore della donna più affascinante del Tribunale. Al pari del protagonista, anche questo suo sentimento subisce un’evoluzione nel corso del romanzo. All’inizio Alessandra è l’oggetto del desiderio solo perché costituisce un altro degli elementi di quell’ideale di normalità cui Vincenzo ambisce; per cui, ricevere le attenzioni della ragazza è un modo come un altro per sentirsi finalmente adeguato, simile agli altri.
Poi, però, Alessandra lo stupisce con la sua intelligenza, il suo senso pratico, la sua comprensione, e se ne innamora. La consapevolezza di questo nuovo sentimento, all’inizio, lo rende più insicuro di quanto non sia già, perché pensa di non meritarla; nello stesso tempo, il pensiero di aver trovato una persona che lo appaga gli dà quella speranza e quella vitalità che solo l’amore riesce a regalare. Infine, la presa di coscienza che Alessandra lo ama per quello che è, anzi proprio perché è così, con le sue debolezze e le sue stranezze, lo fa sentire più forte e sicuro anche di se stesso.
Tuttavia, l’amore tra Vincenzo ed Alessandra è un sentimento moderno, epurato da luoghi comuni e sentimentalismi. È un sentimento che vive alla giornata, ma sa essere sincero, onesto, pratico.
Vincenzo si affeziona agli oggetti: chiama i mobili per nome. È, in effetti, la solitudine che dialoga con se stessa. Secondo te, questa è follia o lucidità portata all’estremo?
Secondo me, è un’altra delle sue adorabili bizzarìe. Penso si tratti di una valvola di sfogo necessaria della sua malinconica solitudine, un modo per trovare nella sicurezza legata agli oggetti quell’affidabilità, quella certezza che sembrano mancargli negli ultimi anni o che, forse, non ha mai veramente avuto.
Come un novello naufrago su un’isola deserta che, per non impazzire, cerca compagnia nelle cose, tentando di umanizzarle, così Vincenzo – chiusa la porta di casa o quella dell’ufficio – chiama i suoi mobili per nome per sentirsi meno solo, trasmettendoci un senso di miseria, certo, ma strappandoci anche un sorriso compassionevole. Del resto i mobili in questione sembrano piegarsi perfettamente a questo bisogno, di “ikeana” memoria.
La “nomina d’ufficio” è uno dei miracoli di questo romanzo. Ma questi miracoli stereotipati (molto comuni nell’immaginario napoletano) possono essere sostituiti da un’altra forma di riscatto? Ti sembrano un escamotage troppo banale, o un aiuto inevitabile?
La nomina a difensore d’ufficio è uno dei punti di svolta del romanzo. E’ l’occasione che Vincenzo aspettava. Da questo momento, il protagonista comincia a cambiare il suo punto di vista sulle cose.
Sono d’accordo nel ritenere che l’espediente abbia un che di forzato nello sviluppo della vicenda. Tuttavia, a voler dare una lettura contemporanea del romanzo, alla luce degli avvenimenti economici, politici e sociali degli ultimi quattro o cinque anni, vien quasi da pensare che l’autore sia stato, già nel 2007, un precursore in letteratura del dilagare della precarietà, visto che il cd. “colpo di fortuna”, aspetto della vicenda in apparenza poco credibile, costituisce per molti l’unica speranza a cui appigliarsi all’interno di una realtà lavorativa che non offre punti di riferimento e non premia in alcun modo né il merito né le capacità personali.
Parlaci dell’autore. Sei d’accordo con il suo pensiero, con la sua personale visione di una Napoli “malinconica”? Lo stile del racconto è gradevole?
Napoli sfugge a qualsiasi tentativo di compiuta descrizione, è una città in cui una grande bellezza si associa ad una grande disperazione. E, in mezzo a tutto ciò, si colloca questo atteggiamento dei napoletani di malinconica ironia, di scanzonata rassegnazione; un miscuglio di fatalismo, di furberia spicciola, ma anche di un grande slancio emotivo. De Silva è bravo a rifuggire gli eccessi descrittivi. Napoli non è direttamente riconoscibile nei suoi elementi più “turistici” nelle pagine del romanzo; eppure – allo stesso tempo – è sempre lì, nel modo di pensare del protagonista, nel linguaggio, nella descrizione degli ambienti (dal Tribunale al bar della malavita), nella descrizione delle persone con cui il protagonista interagisce (mirabile la descrizione della donna del Burzone). La stessa malinconia del protagonista non è monolitica, ma presenta più sfaccettature. La malinconia ironica è una sorta di limbo, di equilibrio, che consente di non abbandonarsi alla disperazione, ma anche di non prendersi troppo sul serio, di essere preparato alle batoste della vita quotidiana e, nel contempo, a conservare un atteggiamento diffidente dagli eccessi.
Lo stile del romanzo è gradevole e mai pesante, grazie anche al largo utilizzo di parole e, a volte, intere espressioni dialettali che – con l’efficacia, l’incisività e quella teatralità tutta speciale che solo il dialetto napoletano possiede – sottolineano i passaggi in cui emerge la natura più verace del protagonista.
Quale episodio ti ha colpita in modo particolare, e perché? Nel complesso, è un romanzo che stimola la riflessione o, in un certo senso, deludente?
Più che un episodio in particolare, ho amato la vivida ricostruzione della difficile vita dell’avvocato medio in una città del Sud: la difficoltà di procacciarsi i clienti, la difficoltà di farsi pagare, le piccole menzogne che si raccontano – a volte prima di tutto a se stessi – per sentirsi all’altezza (specie di fronte ai colleghi), il contrasto tra le “alte” aspettative di questa professione e la desolante realtà di molti avvocati. Aspetti, questi, con i quali qualunque giovane avvocato del Sud (me compresa) prima o poi si trova a dover fare i conti.
Ultima domanda: avresti preferito un finale diverso? Quali elementi della storia modificheresti?
Apprezzo il finale, perché non si tratta del classico lieto fine. I problemi per Vincenzo non sono finiti, domani avrà ancora i suoi demoni da combattere, dovrà ancora scontrarsi con la difficoltà di procacciare clienti e farsi pagare, dovrà gestire il suo rapporto con Alessandra e con una ex-moglie tornata all’attacco. Quello che è cambiato, invece, è il suo atteggiamento di fronte alle cose, un po’ meno “Malinconico” e improntato, invece, ad una maggiore sicurezza e combattività. Ritengo che il messaggio del romanzo sia proprio questo: è difficile cambiare il mondo intorno a noi, quello che possiamo fare è credere un po’ di più in noi stessi, cercando di non avvilirci dinanzi alle difficoltà. E’ per questo che ritengo il romanzo assai utile e di piacevole lettura, pur non avendo ambizione di capolavoro letterario.
Se c’è qualcosa che mi è piaciuta meno, nel libro, è il fatto che lo scrittore abbia voluto, forse, indulgere un po’ troppo in certe forme di mitizzazione, più o meno ironica, della malavita; descrizioni che, non solo a Napoli, hanno da sempre un certo successo. Benché De Silva sia stato ben attento a chiarire la condanna di tale realtà, avrei forse ridimensionato maggiormente questo aspetto.
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